Testimonianza di Massimiliano e Tatiana, in Mozambico per il loro progetto di ricerca, che ci raccontano impressioni, esperienze e spaccati di vita quotidiana dopo due mesi dal loro arrivo.
“Il Mozambico è una terra piena di fascino, di sorprese e di attesa.
Siamo arrivati qui, due mesi fa, con l’intenzione di parlare di resilienza, per applicarla nella ricostruzione dei centri di salute e raccontarla alla comunità. Oggi, seduti nell’ufficio di Beira o in missione nei distretti rurali della provincia, il Mozambico ci mostra la sua versione di resilienza. La straordinaria capacità delle persone di sorriderti sempre, di chiederti se hai bisogno di qualcosa e il saluto di chiunque subito seguito dalla domanda “como està?”. Le case in pao-a-piqué, i bairros informali in espansione, le baracche a bordo strada che vendono frutta, copertoni e saponette. Il tempo è dilatato. Si aspetta molto e sempre, dall’ordine in un bar ad una carta dal ministero della salute. Si aspetta l’ultimo minuto per aggiustare qualcosa, per risolvere un problema, spesso anche per agire. Nonostante ciò, nella vita di tutti i giorni la povertà e le ferite lasciate dalle innumerevoli catastrofi che hanno colpito i mozambicani, si spalleggiano alla naturale spinta a rialzarsi, a ri-adattarsi e a continuare.
Le case de mãe-espera
Dopo lunghe attese e innumerevoli cambi di programma anche la nostra ricerca si è delineata con resilienza. Il lavoro sui centri di salute si è focalizzato sulla caratteristica casa de mãe-espera, una struttura indispensabile nelle aree rurali per avvicinare le mamme in dolce attesa ai centri di salute, dove esperar (aspettare) in compagnia di altre mamme più esperte, un luogo in cui le cure di una levatrice permettono di partorire in sicurezza.
Il sistema delle case de mãe-espera è molto recente (2009), nato dalla necessità delle famiglie di salvaguardare il delicato momento del parto e ridurre la mortalità materno-infantile. Un contesto che purtroppo ancora ad oggi non dispone di linee guida precise, né dal punto di vista architettonico né da quello politico, in aggiunta ad una drastica mancanza di risorse economiche e numerose barriere culturali. La maggior parte di queste strutture vengono costruite con materiali tradizionali, localmente reperibili ed estremamente fragili nei confronti delle condizioni climatiche del paese, che stanno drasticamente cambiando negli ultimi anni. Tetti scoperti, camere costipate, ambienti surriscaldati e soffitti cadenti: sono le caratteristiche delle case de mãe-espera non solo della provincia di Sofala.
Abbiamo parlato con più di 30 mamme, chine sulle braci arrangiate a terra a mescolare le papinhas (acqua, farina e zucchero), sedute per terra sulla dibonde (espressione in dialetto ndau per dire “stuoie”) con i loro grossi pancioni all’ottavo o al nono mese. Mamme che non sanno cos’è l’architettura, che non ne conoscono i benefici e le bellezze perché intente ogni giorno a coltivare la terra per sopravvivere e nutrire le numerose famiglie, curare la casa, camminare per chilometri per procurarsi l’acqua. Per alcune la casa de mãe-espera dei centri di salute è un lusso. Un tetto sopra la testa e un pozzo a 3 metri dalla veranda dove prendere acqua per cucinare e per lavare le capulane non sempre sono presenti nel loro quotidiano. Negli sguardi delle donne immortalate nelle nostre foto si leggono mille domande, si chiedono chi siamo, cosa vogliamo, perché siamo lì. C’è tanta timidezza, sorridono voltandosi e coprendosi i volti quando, con il nostro portoghese sbilenco, le salutiamo e chiediamo di raccontarci la loro storia. La curiosità è tanta ma la disparità tra le nostre scarpe e le loro ciabattine infradito creano una grande barriera che in così pochi mesi è difficile abbattere.
Ad ogni visita echeggia la più grande domanda della nostra esperienza qui in Mozambico: cos’è quindi l’architettura in Africa? Un eco dello stile coloniale modernizzato in linea con le antiche ville della città di Beira o una struttura minimale, puramente funzionale, che costruita con lo stretto necessario possa garantire l’indispensabile per sopravvivere?
Siamo qui con l’aiuto del CAM e in collaborazione con UNHABITAT per cercare l’inizio alle risposte a questa e a tante altre domande. Volevamo applicare la resilienza a questo fragile paese ma ora è il Mozambico ad insegnarci il suo vero significato.
Tre mesi in Mozambico
Tre mesi in Mozambico bastano per iniziare a blaterare il portoghese e qualche parolina in Ndau e Sena, provare la matapa, la xima e il pesce cucinato in tutti i modi possibili. Impari a muoverti in chopela, ad andare al mercato. In tre mesi puoi visitare Vilankulo e Ilha de Mozambique, fare un pranzo alla Lagoa, visitare il Parco di Gorongosa, macinare chilometri sulla spiaggia fino al villaggio dei pescatori. Puoi conoscere tante realtà che operano sul territorio mozambicano, associazioni, cooperanti internazionali e locali. Impari a leggere gli sguardi e le parole nascoste dietro le mascherine, a conoscere i tuoi colleghi e gli amici delle birrette al Biques. Impari la filosofia mozambicana del deixa ir, del lasciare andare, del non preoccuparti troppo (e non è sempre un bene).
Ma tre mesi non sono sufficienti per capire il Mozambico e la sua complessa mutevolezza, non bastano per avvicinarti veramente alle persone, conoscere le loro tradizioni, le molteplici realtà che circondano ogni famiglia, ogni quartiere, ogni paesaggio.
Se volete capire il Mozambico tre mesi non bastano. Ma per rimanerne affascinati sicuramente basta anche molto meno!“
Max e Tati