La testimonianza di Francesca Bina, rientrata dopo un anno di Servizio Civile a Caia.
Un momento di riflessione finale sulla sua esperienza, sulle sue sensazioni e sui suoi pensieri durante l’anno di servizio.

 

Dal mio rientro dal Mozambico mai mi sarei immaginata di ritrovarmi bloccata a casa non per mia volontà. Nelle ultime settimane mozambicane stavo cominciando a riassaporare il ritrovarmi con parenti e amici, ritrovare alcuni luoghi cari di Bologna, poter prendere la bicicletta e girare in lungo e in largo per la città, camminare sui colli all’aria aperta, ecc… tante piccole cose che in quest’anno a Caia mi erano indubbiamente mancate.

Mai mi sarei aspettata di ritrovarmi limitata nella mia libertà per un nuovo virus che ha bloccato tutto.

Ovviamente non mi sono mai sentita “non libera” in Mozambico, ma sicuramente ho dovuto rivedere alcuni miei comportamenti che qui in Italia avrei ritenuto ovvi e scontati, ma che a Caia, forse, non lo erano fino in fondo. Ho così avuto la possibilità in questo anno di confrontarmi e scontrarmi in prima battuta con il dialogo interculturale e, soprattutto, di sentirmi io diversa, di sentirmi finalmente decontestualizzata in pieno.

Non semplice, perché la sensazione che ogni tanto ho provato è quella di un piccolo soffocamento, una piccola limitazione alla mia libertà personale, alla mia libertà espressiva.

Noi occidentali difficilmente ci soffermiamo a riflettere sull’importanza e il peso che la libertà individuale esercita nell’arco di una giornata: per questo motivo, al mio rientro, con il decreto “restate a casa” per limitare la diffusione e il contagio del coronavirus emanato dal governo, ho avuto per un attimo la sensazione di ritrovarmi a Caia, in una situazione non troppo distante da quella appena lasciata. Molti pochi svaghi, molti pochi luoghi di incontro, pochissime relazioni interpersonali.

È stato così un rientro, sotto certi aspetti, graduale che mi ha permesso ancora di più di pesare e di assaporare il senso della libertà e rielaborare una moltitudine di emozioni provate nell’arco di quest’anno.

Cosa succede quando ci viene tolta la libertà? Cosa succede quando si scopre che molti vengono privati di questo diritto fondamentale? Siamo consapevoli che ci sono persone che non possono scegliere la vita che vorrebbero? Siamo coscienti di cosa significhi per noi? Riusciamo a dare un peso e un valore a questo diritto?

 

Spero che con questa situazione la società occidentale possa risvegliarsi dal suo torpore e possa osservare il baratro verso il quale ci stavamo autospingendo irreversibilmente, dando per scontato il senso di libertà.

È libertà pensare di vivere in una società illimitata, sempre volta alla crescita a scapito di altre persone, altri contesti, altre risorse?

Prima piccola conclusione: penso che oggi la grande libertà di ciascun individuo sia quella di poter scegliere di farcela con le proprie risorse, con quello che la propria terra offre, senza sfruttare o espropriare tutta una parte di mondo che rimane oppressa da questo meccanismo di neocolonialismo che noi occidentali ci ostiniamo a perpetuare.

A Caia ho imparato e visto proprio questo: le persone sono talmente attaccate al luogo in cui nascono e crescono che neanche le piogge annuali riescono a far cambiare loro idea su dove vivere. Nemmeno le alluvioni stagionali riescono a motivare le persone a cambiare casa perché è quella in cui hanno sempre vissuto. Per noi incomprensibile, ma è così. Ognuno ha il proprio campo dal quale raccoglie il necessario per poter dar da mangiare alla propria famiglie. Ed è sufficiente.

Punto secondo: sempre a Caia ho toccato da vicino la condizione della malattia e del malato: la malattia è uno stigma dal quale la persona non può liberarsi, anzi è condannata a questa sua condizione e per questo spesso emarginata.

La cura è un lusso e non sempre possibile, dipende molto dalla patologia che il paziente manifesta. In luoghi come Caia che sono –penso- il 90% del Mozambico il servizio sanitario è molto carente; il paziente è fortunato se manifesta sintomi noti come malaria, TBC o HIV, perché individuabili e trattabili con pastiglie da prendere quotidianamente, altrimenti, anche solo per un braccio rotto, non si può fare nulla perché la macchina dei raggi X è rotta e bisogna spostarsi ad Harare ad un’ora e mezza da Caia o, peggio, a Beira a dieci ore di treno se è puntuale. Ho visto persone morire per delle infezioni urinarie (banalmente delle cistiti non trattate) o per infezioni divenute ascessi e che hanno poi portato a complicazioni che qui non sarebbero neanche classificabili come tali.

Attualmente il coronavirus ha completamente paralizzato la nostra società che si è ritrovata spiazzata di fronte ad un contagio su larga scala: l’occidente ha sperimentato la paura di un’epidemia a casa sua e per questo tutta la comunità scientifica si sta mobilitando per curare e trovare delle soluzioni per rendere più innocuo il virus.

Purtroppo troppo spesso mi accorgo di quanto la storia non insegni proprio un bel niente: sempre le società si sono svegliate dopo “il grande danno” di una guerra, di una catastrofe naturale, di una legge sbagliata, ecc…non sono mai riuscite a prevenire, adottando comportamenti più responsabili e più solidali.

Perché siamo terrorizzati da questa influenza e non siamo minimamente toccati dal fato che annualmente milioni di persone perdono la vita per la malaria? Semplice, perché non ci riguarda. Non è a casa nostra. Ma le malattie hanno confini? Possono essere recluse solo ad un angolo di mondo?

 

Provo con un altro esempio, allora: perché siamo bloccati a casa da questo virus, ma non ci barrichiamo a casa perché respiriamo polveri sottili in quantità preoccupanti ogni giorno? Questo ci riguarda molto da vicino, ma perché non ha lo stesso peso che si sta portando dietro questo virus?

In Mozambico essere malati significa spesso essere abbandonati dalle proprie famiglie, significa ritrovarsi soli senza possibilità di cura, significa sentirsi ormai più morti che vivi.

Quello che vedo adesso è che, al contrario, il peso che noi occidentali diamo alla saluta e alla vita è enorme, ma non riusciamo ad essere coerenti. Ci prendiamo cura solo di noi stessi dimenticandoci della terra e di tutte le altre persone che la popolano.

Per me è stato molto importante a Caia conoscere persone che hanno già questa visione d’insieme, che riescono a mettere insieme i pezzi raccogliendo i malati e cercando loro di dare speranza, ma spiegando che la cura di sé non può prescindere dalla cura della comunità e del territorio.

In questo penso che ci sia solo da imparare e umilmente ritirarsi un pochino, smettere di sentirsi illimitati; perché questa assenza di limiti è solo una distorsione dell’idea di libertà che ci stiamo costruendo.

Francesca Bina, Bologna marzo 2020