da Consorzio Associazioni con il Mozambico - CAM | 4 Apr 2014 | Progetti in Mozambico, Storie
Un terzo racconto del nostro amico, ed ospite a Caia, Christian Piana (cfr. articolo sul suo viaggio in autobus da Johannesburg a Caia e sulla magia-medicina tradizionale).
In questa riflessione vorrei soffermarmi brevemente sulla moda, e nello specifico curiosità e particolarità della moda nel distretto di Caia.
Ovviamente per moda non intendo le tendenze, che nei centri maggiori, sono dettate dalle marche o dalle collezioni commerciali di stilisti, vetrine e riviste. Intendo la moda nel suo concetto originale, che è la scelta di cosa mettersi addosso, di come mostrarsi agli altri e di come comunicare un’immagine personale. La moda che nasce nel momento che mettiamo una camicia rossa piuttosto che un maglione nero.
A Caia, come nella maggioranza delle immense campagne Mozambicane (distritos) oltre a non circolare riviste di moda e a vedersi pochissima televisione (ancora e per fortuna), non esistono assolutamente negozi di vestiti. Arrivano grandi lotti di indumenti usati da varie parti del mondo, che poi vengono ridistribuiti o rivenduti per pochi soldi nei mercatini in strada. Vi si trova un po’ di tutto: magliette calcistiche oltremare, camice sgargianti, pantaloni di ogni dimensione e taglio, ecc…
La fortuita combinazione di vestiti d’ogni sorta e mancanza assoluta di “esempi” o “diktat” sul come vestirsi, ha perciò dato largo spazio all’uso della pura spontaneità e della genuina creatività nella moda Caiense: insieme a sobrie combinazioni di abiti vi sono ogni tanto individui che con magnifica nonchalance sfoggiano un prêt a porter un tanto curioso, agli occhi di una persona come me, ahimè troppo inquinata dalle regole.
Anche se in alcuni casi mi scappa un sorriso, trovo però, nei casi più estrosi, le rimanenze della splendida libertà: la moda qui è libera, segue gli intuiti e le voglie personali. É un territorio, forse l’ultimo, ancora inesplorato dalla cultura consumista (di cui noi Italiani tra tanti, siamo promotori). É bella perché inventata.
Vediamo qui nelle foto alcuni esempi originali, raccolti casualmente passeggiando per la cittadina: come il ragazzo che è apparso al cospetto della mia bicicletta, tra case di terra e paglia di una comunità, indossando un autentico capo “Caia’s saturday nights fever”, ossia una sgargiante camicia blu elettrico di satin. Un eleganza particolare, però non tanto casual quanto Thiago che veste una maglietta alla marinara con strisce blu e berretto in stile Popeye .
A volte l’eleganza é importante e sinonimo di rispetto verso chi si incontra o riceve. Cosí, durante l’attesa per la visita del primo ministro, ho incontrato il giovane professor João, che aspettava nella sabbiosa strada, sotto un sole cocente con indosso niente popó di meno che lo smoking. Non importa il fatto che non si trattava di una serata di gala, il professor João ha dimostrato lo stesso un rispetto infinito.
Ma tra le abitudini più curiose v’è il non far molta distinzione tra capi femminili e maschili: gli uomini usano spesso e volentieri magliette o pantaloni da donna; lo fanno naturalmente, perché li trovano belli, o bello è usare colori più sgargianti, come dargli torto.
Così è comune vedere ragazzi che senza inibizioni artificiali sfoggiano ciabatte dorate o rosa, paillettes e altri ornamenti, com’è il caso dell’amico ballerino che s’è autofabbricato un poncho con un panno a fantasia floreale, oppure il ragazzo che possiede una piccola bancarella al mercato e che probabilmente ha pensato: “perché mettersi una canottiera semplice se ci si può mettere una canottiera con le borchie?”
da Consorzio Associazioni con il Mozambico - CAM | 20 Feb 2014 | Progetti in Mozambico, Storie
Un secondo racconto del nostro amico, ed ospite a Caia, Christian Piana (cfr. articolo sul suo viaggio in autobus da Johannesburg a Caia).
Da un mese ormai mi trovo nelle vesti di un archeologo della memoria, tutto occupato in raccogliere storie popolari, miti, leggende e quant’altro faccia parte della letteratura non scritta, ma principalmente raccontata dai più vecchi ai più giovani, per trasformarle in un libro illustrato, prodotto e distribuito in Brasile.
La tradizione orale però è un po’ resistente all’immobilità della scrittura: i racconti si modificano sempre in maniera fluida a seconda della personalità del narratore, del suo entusiasmo, della sua esperienza e soprattutto del suo bagaglio di riferimenti visivi. Le storie nascono dal tessuto vivo dell’esistenza, per questo è fondamentale che la ricerca non si limiti alla trascrizione di alcuni racconti, ma che sia frutto di un’esplorazione di tutti gli elementi che compongono la narrazione, e quindi che non venga fatta seduti ad un tavolo (per fortuna), ma sulla strada, in una lenta penetrazione nella terra calda e impregnata di sudore.
In genere questi racconti hanno il preciso compito di dar continuitá alla narrazione dell’esperienza umana: servono per rammentare, avvisare o ammonire le persone su questioni etiche come il vivere in comune, il rispetto ai piú anziani, la solidarietá, l’onestá, ecc… La maggioranza dei racconti vedono protagonisti animali impersonificati, animali che si comportano come uomini, e vivono bizzarre avventure. Racconti in cui appare anche tutto il contesto geografico e sociale: vari tipi di piante e alberi, il fiume, i regulos (capi comunitari), i curandeiros (che a volte curano e a volte fanno pozioni strane), ed altro.
Il mio compito è stato anche quello di scoprire questi ultimi e conoscerli piano piano, registrarli in fotografie o fare interviste.
Una delle prime realtà che ho approfondito è stata quella dei medici tradizionali chiamati anche curandeiros. Essi appaiono in quasi tutte le storie poiché preparano medicamenti per guarire o pozioni per fare o liberarsi da inganni, sono padroni del mistero, di forze invisibili e incomprensibili.
Il mondo dei medici tradizionali mi è stato presentato da Rui Fernando Mortar, medico tradizionale, classe 1960.
Rui è un omino piccolo e sottile dall’energia brillante, a volte pare raddoppiare di volume quando sorride e scherza, la sua forza sta nella simpatia.
Ci siamo dati appuntamento a casa sua una domenica alle 14h, una giornata torrida con 35 gradi e il sole forte; ci siamo messi sotto un grande albero, come si fa di costume (la vita sociale sembra succedere sempre all’ombra degli alberi), e li m’ha spiegato per un’ora e mezza la sua storia.
M’ha raccontato di come lo spirito di suo nonno l’ha cercato sin da bambino per iniziarlo alla pratica del curandeiro, di come i medici agiscono e quanto vengono rispettati, ma anche delle minacce e pericoli che corrono, poiché molti altri curandeiros maligni, per impossessarsi dei poteri dei più esperti come lui, fanno delle magie (feitiços) che possono essere mortali.
Poi la conversazione ha iniziato a raggiungere toni metafisici, e Rui ha proseguito parlando di fulmini che si sono trasformati in lucertole argentate, di legni diventati serpenti protettori delle case, e di sabbia trasformata in zucchero.
Siamo entrati nella sua casa, dove mi ha mostrato i suoi strumenti di lavoro e oggetti con cui esegue le cure.

I medici tradizionali in Mozambico, così come in altri luoghi, sono molto numerosi e parte integrante di un sistema di salute spontaneo, nato dall’assenza quasi completa di strutture sanitarie ufficiali come ospedali o centri medici. Anche dove la modernità ha portato alla costruzione di qualche piccolo ospedale, moltissimi preferiscono ancora le cure del medico tradizionale anziché un ricovero in una clinica, nonostante questo può significare in molti casi la morte.
La medicina tradizionale di fatto è molto più vicina ad una religione spiritista che ad uno studio profondo sugli elementi di cura presenti in natura (come invece io m’aspettavo): a curare sono gli spiriti, e molti medici tradizionali riconoscono che nei casi più gravi i pazienti devono ricorrere a cure ospedaliere.
Ciò non li priva però della loro carica culturale, sorta dalla tradizione millenaria e ancora viva in maniera spontanea come un filo portante di una tela sociale complessa. Il curandeiro è un saggio, un conoscitore, un narratore di esperienze, una persona che sa consigliare, una referenza.
Il curandeiro, a pari dei nostri medici di famiglia o dei nostri preti, è un depositario delle confidenze della comunità, uno scrigno della storia profonda di questa terra, profonda come le radici dell’Africa. É l’unico filo che conduce gli uomini a comunicare con gli spiriti, spiriti buoni, spiriti maligni, spiriti come sicari o come protettori, spiriti burloni o spiriti troppo seri, spiriti invisibili ma sempre presenti, in agguato.
Rui nello stesso giorno mi ha portato, con la sua piccola e scassata moto, a conoscere altre 3 medico donne, una delle quali ci ha invitato ad una festa tradizionale il sabato successivo.
Alla festa io e Rui ci siamo andati con la collega italiana C. Era una festa, durata 3 giorni, in casa del medico donna Maria Luiza Mequi, di offerta e ringraziamento agli spiriti. Quando siamo arrivati, alle 7h del mattino, alcuni stavano ancora dormicchiando, ma altri si stavano preparando per continuare musica e danza. I musicisti stavano scaldando il batuque (tamburo tradizionale) vicino al fuoco per tirarne la pelle e farlo suonare meglio.
Ci siamo seduti tutti in circolo e presto le percussioni hanno iniziato il loro ritmo bello, intenso e caldo, accompagnato dai canti, ripetitivi, “mantrici” ma incomprensibili per me che non conosco il chissena.
Maria Luiza, la donna timida che ci ha ricevuti in breve s’é trasformata davanti ai nostri occhi in altro: la trance la trasportava e vagava fissando qualcosa d’invisibile per noi, a volte gridava con una voce che sembrava non essere sua, oppure ballava e muoveva il corpo come se stesse scrivendo qualcosa d’incomprensibile per noi.
Le cose si sono susseguite con un aumento costante d’intensità finché non c’è stato una specie di lavaggio del medico con acqua e mais (credo), e a poco la cerimonia ha avuto fine (non prima che anche io e C. fossimo coinvolti nelle danze, uno dei momenti più imbarazzanti della mia vita).
La magia è stata presente, senza dubbio: che magia era? Magia per davvero? Magia dell’emozione del momento? Magia dello star difronte a qualcosa così lontano da tutto ciò che conosco? Non lo so, non credo molto alla magia, ma sicuramente abbiamo visto qualcosa di profondo, qualcosa che aveva lo spessore della realtà che ci circonda. Bello.
Non so come spiegare, ma quando sento nuove storie e avventure del coniglio e del leone, piuttosto che del coniglio e della iena, ecc… dove immancabilmente c’è di mezzo un curandeiro, ho la sensazione di visualizzare meglio la storia, iniziano a formarsi immagini famigliari nella mia mente, inizio a sentirne con più convinzione la loro coerenza.
da Consorzio Associazioni con il Mozambico - CAM | 24 Gen 2014 | Progetti in Mozambico, Storie
Christian Piana è un fotografo italiano ed educatore sociale che vive da molti anni in Brasile. Trascorrerà alcuni mesi a Caia per lavorare ad un suo progetto: un libro di racconti per ragazzi illustrato, tratto dalla tradizione orale in Mozambico. Gli abbiamo chiesto di raccontarci del suo avventuroso viaggio di arrivo.
Sono arrivato a Johannesburg la mattina del 13 gennaio, con l’intenzione di recarmi a Caia via terra: prendere un autobus sino a Maputo e da là uno sino a Caia, dove Marta e Claudia mi aspettavano al CAM.
Sono partito da San Paolo del Brasile, da dove avrei potuto comprare un biglietto per Beira, l’aeroporto più vicino al distretto. Ma ho scelto Johannesburg perché il biglietto è più economico e soprattutto perché ero sicuro che il restante tragitto, da fare via terra, mi avrebbe dato il tempo di immergermi più intimamente nel territorio e di diluire con calma le sensazioni. Così è stato.
Maputo mi pare bellissima, vivace, animata e molto più cordiale di Johannesburg, anche se ovviamente con i segni di povertà molto più tangibili. Mi affascinano molto i palazzi, i loro disegni che ricordano un influenza di stile coloniale con un’avanzo modernista, ma comunque scoloriti e assorbiti dal tempo.
Credevo di trovare una città moderna e “pulita” nelle grandi vie e di notare l’Africa, intendo l’Africa dei miei stereotipi, delle donne con i vestiti tradizionali che caricano bambini e grandi cesti sulla testa, delle baracche provvisorie costruite in legno, ecc… solamente usciti dalla grande città; ed invece quest’Africa è già presente al mio arrivo, è già gridante, è in tutte le strade.
La stazione dei pullman, in realtà è un grande piazzale dove ci sono veicoli di ogni sorta e condizioni, non ci sono sportelli d’informazioni, ne di vendita biglietti. Tutti sembrano conoscere tutto e mi si avvicinano velocemente per sapere dove vado e per vendermi il biglietto.
Io, che vengo da San Paolo, dove purtroppo la filosofia insicurezza e approfittarsi degli altri ormai è sempre più presente nelle relazioni tra gli uomini, ovviamente mi preoccupo e insospettisco: sono sicuro che mi vogliono fregare o addirittura derubare.
Invece mi vogliono dirigere onestamente verso il veicolo corretto. Chiedo al tassista che mi ha accompagnato se il tutto è sicuro e lui mi dice di si, che posso sempre andare in giro tranquillo. In realtà gli avevo già chiesto se è sicuro andare in giro per le strade di Maputo tranquillamente a fotografare, e lui già mi aveva risposto di sì, che è sicuro e che non mi devo preoccupare, io ne rimango sorpreso (a San Paolo nessuno ti risponderebbe di sì).
Questa sensazione di sorpresa rispetto alla non criminalità mi accompagnerà per tutto il viaggio.
L’autobus è stretto, scomodo e sovraffollato: ci sono persone sedute anche sul corridoio e io devo tenere il mio zaino sulle ginocchia. Sono esausto, è dal Brasile che non dormo. Decido di fermami nella città di Inhambane per riposarmi, scelta geniale.
Inhambane è una tranquillissima e charmosa cittadina sul mare dove la vita sembra scorrere lenta; li finalmente posso lasciare i miei zaini in una stanza di un piccolo hotel e passeggiare serenamente, passeggiare nel continente africano, uno dei miei sogni di sempre.
Vado al mercato e faccio delle foto, ma continuo a chiedere a tutti se è sicuro perché mi sembra così strano che io non debba in continuazione guardarmi intorno per vedere chi mi si avvicina. Ovviamente tutti mi rispondono che è tranquillo e io mi sento così inquinato da San Paolo, dall’insicurezza e dalla paura delle rapine, che m’intristisco e mi rendo conto che necessito di una pulizia interna… di una purificazione.

Incontro persone, parlo con tanti ragazzi, prendo minivan collettive (chapas) per andare in giro, chiedo informazioni e tutti sono cordiali, sorridono, mi salutano, non sento ostilità, né diffidenza; questo mi aiuta nel processo di purificazione.
Da Inhambane prendo un altro autobus in direzione Nampula, che si fermerà a Caia.
In questa tratta ci sono dei conflitti in corso: da qualche mese screzi tra la Renamo e la Frelimo hanno riportato sulla nazione l’instabilità politica e l’ombra tremenda della guerra. Tra Rio Save e Muxungue ci sono frequenti imboscate e attacchi con granate e colpi di mitra che coinvolgono anche veicoli civili; per questo la strada è scortata da una colonna militare.
Il nostro autobus si ferma, così come altri autobus, camion e macchine private. Sotto un albero ci sono dei militari che giocano facendo roteare gli ak47 tra le mani (!!). Aspettiamo per circa 5 ore l’arrivo della scorta militare, quando arriva la scena è surreale e mi ricorda immagini visto solo nei film: la strada si riempie di militari che scendono da camioncini anche di uso civile, non sembrano avere divise uguali e ufficiali, tutti sembrano usare accessori diversi a anche un po’ improvvisati, sembrerebbe un esercito paramilitare. Un soldato ha addirittura un vecchio elmetto di ferro di dimensioni sproporzionate, ci si potrebbe proteggere dalla pioggia in 3 o 4 li sotto. Sono tutti ragazzotti e hanno lo sguardo duro.
Camminano velocemente tra i veicoli e ci ordinano di salire, c’è chi ha fasce di proiettili arrotolate al corpo che strisciano per terra, c’è chi ha lanciagranate in mano e chi carica le granate come se stesse portando delle arance.
Quando la colonna parte, sull’autobus sono tutti seri e silenziosi, guardano in avanti, cercano di sbirciare oltre il parabrezza frontale, la musica è spenta, c’è un bambino che non smette di piangere, è l’unico rumore dell’autobus, l’atmosfera è densa e fuori c’è un bellissimo tramonto che ci si può godere attraverso i finestrini.
La nostra colonna passa senza problemi e attacchi, così rincomincia la musica a tutto volume e la gente torna a chiacchierare.
Arrivo a Caia il giorno dopo, verso le 8 del mattino, è venerdì e io sono partito la domenica (sono esausto).
La mia prima impressione, che ovviamente è immatura visto che non conosco ancora bene la realtà locale, è che la gente è spaventata da questo momento che tutti chiamano già guerra, ma non per l’effettiva dimensione dei conflitti, ma perché ha le dimensioni di un’ ombra inquietante che fa riaffiorare vecchie (ma non troppo) e terribili memorie. Non è il primo paese in conflitto che visito, e nella mia breve esperienza ho capito che la guerra non finisce mai, rimane viva anche se nascosta, rimane tra le esperienze che hanno formato il popolo, chiusa negli armadi, latente e pronta a impadronirsi di nuovo delle paure della gente.
La guerra non combina con le facce e la simpatia della gente che ho incontrato, con l’umore e la tranquillità che ho assaporato, questa guerra sembra non far parte di questo popolo, qualcuno sembra la stia inventando, la stia imponendo come una tassa da pagare.
da Consorzio Associazioni con il Mozambico - CAM | 15 Mag 2013 | Attività in Trentino

Mercoledì 22 maggio 2013, alle ore 16.30, prenderà il via l’ultima tappa della Mostra fotografica “Nella pozza di fango come nel divino cielo ugualmente passa la luna”.
Inaugurata in Sala Falconetto a Trento lo scorso febbraio, fotografie sempre diverse sono state presentate nella parrocchia di Aldeno, in marzo e nella scuola secondaria di primo grado A. Manzoni di Trento lo scorso aprile. Ora, con il titolo “Ad ogni altezza esiste un basso che sostiene l’alto”, saranno esposte nella Sala di Rappresentanza del Palazzo della Regione, sede della “memoria storica” della comunità, espressione del confronto, del potere, del dovere delle scelte, necessariamente indirizzate al bene comune.
Verrà riproposto all’attenzione del pubblico il lavoro realizzato nel laboratorio fotografico “A Munzuku Ka Hina”, lo sguardo degli allievi sulla propria condizione abituale: la vita nella discarica di Hulene, quartiere periferico della capitale Mozambicana e tra gli emarginati della città.
Uno sguardo dalla periferia dunque, ma anche uno sguardo che attraverso l’occhio protettivo dello strumento – macchina fotografica o video camera – sceglie, avvicina, isola e diventa consapevolezza e domanda. Il mezzo, realmente, si fa strumento, diventa opportunità di promozione, risposta alla ricerca di identità, occasione di cre-azione, di riscatto sociale.
La realtà su cui si basa l’indagine dei ragazzi di Hulene, non è una realtà che attira il vasto pubblico, che crea immediata vicinanza, che tranquillizza. L’abbiamo visto nelle espressioni della gente che si avvicinava alle foto in mostra, nelle osservazioni depositate sul registro delle presenze, nelle domande che sorgevano durante il percorso. A che serve vedere queste foto quando la vita è già tanto difficile!?
L’abbiamo visto anche negli sguardi degli alunni, nella prudenza con cui si avvicinavano alla proposta di visitare l’esposizione, nella mancata richiesta di ritornarvi, di estendere l’esperienza ai propri familiari: perché guardare, perché soffermarsi negli sguardi di coetanei che rovistano tra gli scarti di altri per garantirsi la sopravvivenza? Cosa hanno a che fare con noi quelle persone?
Crediamo che sia in questa domanda la risposta che, senza banalizzare, si fa avanti: è l’essere persone, e non bestie, ciò che ci accomuna, è nel fatto che siamo espressione diversa di una stessa umanità, che non possiamo tirarci fuori da ciò che le fotografie mostrano.
E in ogni parte del mondo, nonostante tutto, nonostante le diverse manifestazioni del vivere, sono gli stessi i bisogni e le speranze che emergono, insieme alla capacità di resistere, di promuovere la vita.
Lo esprimono, forse inconsapevolmente, alcuni dei nostri alunni trentini, Silvia, Mattia, Jeremy: “Mi aspetto di vedere bambini che si divertono, anche se non hanno le nostre comodità” “vedrò persone felici, nonostante il posto in cui vivono”, “ballano, sono più bravi di noi!”.
Questa speranza di ritrovare noi stessi negli altri, di scoprire ciò che ci avvicina, insieme a ciò che ci rende unici, di sperimentare alleanze, va alimentata, crediamo, contro ogni tentativo di separazione, di esclusione, di distanza. La Mostra vuole essere un contributo in questa direzione, soprattutto in quest’ultima occasione in cui, parafrasando il titolo e sottolineandone il senso con una Tavola Rotonda aperta al pubblico, si vuole ricordare che, accanto ai rifiuti materiali di cui siamo indubbiamente grandi produttori, non esistono rifiuti “immateriali”, non esistono “scarti”, che l’umanità tutta ha un destino comune.
Tavola rotonda: 23 maggio ore 18.00
Il valore degli “scarti”: contributo alla riflessione sull’emarginazione sociale nel nostro tempo
Interverranno: Roberto Galante – ideatore del laboratorio A Mundzuku ka Hina, Claudia Pretto – giurista, Roberto Clazà – Caritas di Trento, Giacomo Zanonini – del Centro Astalli, promotori e sostenitori dell’iniziativa.
Luisa Giovanna
per l’Associazione promotrice
“A scuola di Solidarietà-la solidarietà si impara”

ORARIO DELLA MOSTRA: lun/ven 10.30-13.00 e 16.30-19.00
sabato 14.00-20.00
Per informazioni: ramgia1@dnet.it cell 339 759 3232
Vedi l’articolo di presentazione del percorso
Locandina completa e presentazione
da Consorzio Associazioni con il Mozambico - CAM | 18 Apr 2013 | Attività in Trentino
Nuova tappa del percorso della mostra fotografica a cura di A Mundzuku Ka Hina (il nostro domani), Scuola laboratorio di comunicazione, Maputo Mozambico, proposta in Trentino dall’associazione “A Scuola di Solidarietà” che dall’8 al 22 aprile marzo sarà presso la Scuola Secondaria di 1° grado A. Manzoni a Trento.
Ricordiamo che ogni tappa della mostra presenta immagini e storie diverse, scelte tra i lavori dei ragazzi della discarica di Maputo, Mozambico, i quali raccontano con sguardo disincantato frammenti della propria vita, espressioni del proprio sentire. In collaborazione con A Mundzuku Ka Hina, laboratorio di fotografia, video, elaborazione digitale dell’immagine, alfabetizzazione digitale, dedicato ai ragazzi della discarica.
ORARIO DELLA MOSTRA: lun/ven 14.00-16.00 sab 9.00-12.30 (per le scuole è gradita la prenotazione presso la segreteria tel. 0461236214)
L’ultima tappa della Mostra,sarà quella presso la Sala di Rappresentanza della Regione Trentino Alto Adige (22/31 maggio).
Associazione promotrice: “A scuola di Solidarietà-la solidarietà si impara” – per informazioni: ramgia1@dnet.it cell 339 759 3232
Vedi l’articolo di presentazione del percorso
Vedi l’articolo sulla seconda tappa
Locandina completa e presentazione