#paroledicaia

#paroledicaia

Nei primi mesi del 2021 abbiamo pubblicato sui profili Facebook ed Instagram del CAM una rubrica con l’hashtag #paroledicaia: 10 parole “simboliche” che raffigurano la vita rurale di Caia.
Si trattava di un modo per viaggiare dentro la quotidianità delle comunità rurali del distretto, dove il CAM vive lavora da 20 anni, partendo da oggetti, strumenti di uso quotidiano, ambienti naturali ed umani.

Proponiamo oggi la raccolta completa che potete visualizzare al link bit.ly/paroledicaia-CAM

Un grazie particolare a Julai Jone, Corrado Diamantini e Giovanna Luisa per la collaborazione sui testi.

Progetto a cura di Maddalena Parolin, impaginazione Anna Mattedi
Un mese di Mozambico – Le prime impressioni di Alice e Stella

Un mese di Mozambico – Le prime impressioni di Alice e Stella

Ad un mese dalla partenza di Alice e Stella, due studentesse dell’Università di Trento e partecipanti dell’Honours Programme TALETE che stanno svolgendo una ricerca tesi in contesti a basso reddito, abbiamo chiesto loro di raccontarci le loro prime impressioni ed emozioni. In questo momento si trovano a Beira, in Mozambico, ospitate dal CAM, il quale ha fornito loro alloggio, ma anche tutto il supporto per svolgere i loro lavori di ricerca e tutta l’accoglienza per farle sentire le benvenute. Le loro strade si sono incrociate a Trento, ma vengono da percorsi diversi. Per questo abbiamo chiesto di raccontarci la loro storia e i loro obiettivi. ci hanno raccontato un po’ di loro.

Mi chiamo Alice e sono una studentessa di Ingegneria Edile-Architettura presso l’Università di Trento. Ho iniziato questo percorso di studi sperando di poter applicare le conoscenze acquisite anche in contesti molto lontani da quelli in cui sono abituata a vivere, e ora posso finalmente mettermi alla prova. La mia tesi mira a formulare un masterplan (un progetto di quartiere) per il quartiere di Macuti, insediamento che si è sviluppato spontaneamente, senza essere pianificato. Quest’area di città è molto vulnerabile ad eventi climatici estremi ed in generale è esclusa da servizi essenziali come la rete elettrica o l’acqua potabile.

Se dovessi elencare quello che manca o i problemi presenti mi dilungherei, ma il vero punto di partenza è quello che già esiste e lo stiamo conoscendo giorno dopo giorno grazie all’aiuto di molte persone che ci guidano attraverso la loro realtà. Tra di loro c’è il rappresentante del quartiere che ci ha accolte calorosamente e un’associazione di giovani volenterosi, l’AJOMAC, che ha creato un polo culturale e che si occupa di organizzare la manutenzione spontanea dei canali di drenaggio.

Questa accoglienza ci ha fatto capire l’importanza che la popolazione attribuisce anche a piccoli studi come i nostri, ma ancor di più la necessità di organizzazioni come il Consorzio Associazioni con il Mozambico, che agiscono concretamente sul territorio.

Sono Stella, iscritta alla Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento, anche se di cuore mi sento più sociologa che internazionalista. Nel contesto della ricerca tesi, mi occupo di marginalità urbana e inclusione sociale. Sono solo poche settimane che mi trovo qui a Beira e ammetto che non è facile confrontarmi con abitudini e culture diverse, ma sta nascendo una cosa grande!

Lo scopo della mia ricerca è quello di studiare quali elementi socio/territoriali perpetuano la condizione di vulnerabilità dei catadores, raccoglitori spontanei di rifiuti solidi urbani, per provare a proporre una piccola soluzione progettuale, focalizzata sulla parte informale del quartiere di Macuti. Sarà una grossa sfida interfacciarmi con persone così diverse, per cultura e stile di vita, e sono contenta di poterlo fare supportata dal CAM e in collaborazione con Unizambeze.  E’ infatti emersa una forte volontà di ripristinare e soprattutto rinvigorire il partenariato Unizambeze- CAM, e questo processo in cui mi trovo potrebbe essere un primo (informale) passo verso una collaborazione più attiva.

Ora, perché sono qui? Me lo sono chiesta tante volte ma forse mai abbastanza per rispondere a tutte. Sono cresciuta sognando l’Africa ed è sempre stata la mia aspirazione più grande, nonché oggetto di corsi ed Erasmus (a Parigi, ad esempio, ho frequentato un master focalizzato sugli Studi Africani), e ho partecipato a TALETE proprio con questo desiderio. Molto spesso trovo dei motivi bizzarri per giustificare tutta questa voglia di Africa quando mi interfaccio con la povertà più estrema, con il degrado a cielo aperto che contorna ogni strada di Beira, con il caldo asfissiante e la paura delle zanzare. Altre volte vengo travolta dalla bellezza dei colori, dalla purezza della cultura locale, dai sorrisi e dalla sensazione di sentirmi integrata fin dal primo giorno, senza dovermi per forza convincere a parole.

Con queste testimonianze vogliamo augurare nuovamente ad Alice e Stella una buona permanenza ed esperienza sperando che questo percorso insieme a noi sia fruttuoso!

Vemos!

Seguite le storie e le immagini di Alice e Stella sul fortunato profilo Instagram tesiste.per.caso, lanciato da Ada e Valentina e cui contribuisce ora anche Susanna, altra studentessa in questo momento impegnata a Beira!

Vedi anche:

30 anni di pace in Mozambico – ricordi e riflessioni 2

30 anni di pace in Mozambico – ricordi e riflessioni 2

Ieri, 4 ottobre, ricorreva il trentesimo anniversario degli accordi di pace in Mozambico, firmati a Roma il 4 ottobre 1992. Ricordiamo l’anniversario con due testimonianze personali Giovanna Luisa e Gianpaolo Rama, due tra i fondatori del CAM, che hanno vissuto da vicino la svolta storica, in Mozambico.

Nell’ottobre 1992 vivevamo e lavoravo a Maputo. Ricordo la pena e l’ansia con la quale la popolazione agognava il raggiungimento di un accordo, dopo 16 anni di dilaniante conflitto, di stragi violente, di sanguinosa guerra fratricida, sostenuta e alimentata da forze straniere. Si seguivano le notizie che provenivano dalla Comunità di S. Egidio a Roma con apprensione e speranza. Nella guerra civile era capitato che il padre si trovasse casualmente da una parte dei contendenti e il figlio o il fratello dall’altra. Molte famiglie avevano perso dei loro congiunti, o non ne avevano più notizie da anni. Gli ultimi anni erano stati di grave siccità, i campi erano aridi o abbandonati per l’insicurezza, tutti gli animali selvaggi annientati, la fame e perfino la sete imperversava. Anche i soldati della Renamo, che perlopiù vivevano saccheggiando villaggi, non avevano più nulla da rubare. Ricordo di aver visto per la prima volta nella mia vita donne e bambini morire di fame e sete.

Nelle settimane antecedenti la firma giungevano dall’Italia vari comunicati contrastanti o meglio, altalenanti tra accordo fatto e accordo non ancora raggiunto, mentre in Mozambico focolai di conflitto armato proseguivano qui e là dimostrando una trattativa e una contesa ancora aperta.

Tale era il desiderio della pace, che allorché la televisione ha mostrato il presidente Joaquim Chissano e il capo della Renamo Alfonso Dlakama firmare, la popolazione ha esultato di autentica felicità e invaso le piazze. Era tale la speranza in un futuro migliore che improvvisamente perfino l’idea di nemico era andata sfumando e, pur senza una profonda azione di verità e giustizia, la popolazione riconciliata, anche nelle regioni dove la Renamo aveva le sue basi, reclutava i suoi soldati, e aveva acquisito un certo consenso.

Solo i combattenti, non ancora disarmati, avevano pretese e ambizioni che facevano intendere che il processo di pacificazione non sarebbe finito con la firma, ma avrebbe richiesto più tempo, prospettando nuovi scontri. Questi si sono effettivamente in seguito avuti ma fortunatamente in zone limitate e di breve durata.

 

Molte delle speranze, nate nel 1992 e poi nel 1994 con le prime Elezioni democratiche, di convivenza e prosperità per il popolo sono state deluse. Oggi il Mozambico ha un’economia di mercato, e, pur ricco di enormi risorse naturali – delle quali pochi si avvantaggiano- , vede un contrasto impressionante tra ricchi e poveri – la maggior parte della popolazione-, una corruzione dilagante, una guerra al nord del Paese, ove vi sono giacimenti di gas naturale, minerali e pietre preziose.

Lo stato fatica a sostenere le opere pubbliche necessarie, la sanità, la scuola, entrambe con seri problemi di qualità dei servizi offerti, solo in parte attenuati dallo sforzo della cooperazione internazionale”

Tale era il desiderio della pace, che allorché la televisione ha mostrato il presidente Joaquim Chissano e il capo della Renamo Alfonso Dlakama firmare, la popolazione ha esultato di autentica felicità e invaso le piazze.

Era tale la speranza in un futuro migliore che improvvisamente perfino l’idea di nemico era andata sfumando e, pur senza una profonda azione di verità e giustizia, la popolazione riconciliata.

La storia dell’accordo di pace – qui riassunta nell’apposita pagina di  Wikipedia – è raccontata estesamente, con interviste e testimonianze, nel documentario Mozambique Paths of Peace, del 2012, potete contattarci se desiderate una copia del DVD.

30 anni di pace in Mozambico – ricordi e riflessioni 1

30 anni di pace in Mozambico – ricordi e riflessioni 1

Oggi, 4 ottobre, ricorre il trentesimo anniversario degli accordi di pace in Mozambico, firmati a Roma il 4 ottobre 1992. Ricordiamo l’anniversario con due testimonianze personali Giovanna Luisa e Gianpaolo Rama, due tra i fondatori del CAM, che hanno vissuto da vicino la svolta storica, in Mozambico.

“Quando due elefanti lottano è l’erba che soffre”

(Proverbio africano)

1982: era la prima volta che ci trovavamo così lontani da casa, ospiti di un Paese da poco uscito da un conflitto che l’aveva portato, stremato, all’indipendenza dal colonialismo portoghese (1975). La ricostruzione veniva assunta dai vincitori, i mozambicani del partito del Frelimo, di ispirazione marxista, osteggiati ben presto dai mozambicani dalla Renamo, l’esercito filo occidentale di resistenza. Armati da potenze straniere, che aspiravano ad aumentare le reciproche zone di influenza, o almeno a mantenere quelle che già si erano conquistate, i due schieramenti combatterono una guerra fratricida che durò oltre 16 anni e si sarebbe conclusa il 4 ottobre 1992, con un Accordo di Pace siglato a Roma, presso la sede della Comunità di S. Egidio.

Restammo in Mozambico oltre due anni, accompagnando il declino a cui la guerra sottomise uomini, donne e bambini, lentamente privati di ogni diritto, pur essendosi liberati della schiavitù degli antichi coloni.

Il Cuamm, (Medici con l’Africa) aveva destinato Paolo al lavoro ospedaliero nel distretto che gravitava intorno a Luabo, in Zambezia. Terra di fiorente coltivazione della canna da zucchero in epoca coloniale, a quel tempo si avviava inesorabilmente alla decadenza.

Al nostro arrivo, nel 1982, nei negozi della cittadina, gestiti da mercanti indiani, erano ancora disponibili derrate alimentari, stoffe, oggetti di uso comune, distribuiti alla gente che accorreva grazie ad un passa parola e si accodava in lunghe file in attesa del proprio turno. Vi trovavano pesce, latte, legumi, zucchero, anche pane qualche volta. Poi sempre meno. All’asilo dove lavoravo i bambini venivano soprattutto perché avevano un pasto garantito, ma nei due anni della mia permanenza ho visto dapprima servire riso e fagioli o verdure, carne o pesce, una volta alla settimana almeno, poi tè con i biscotti, ed infine soltanto più tè.

A fine guerra, occorre ricostruire non solo l’ambiente devastato, non solo i servizi essenziali, occorre ricostruire se stessi, ritrovare qualcosa in cui credere, qualcuno con cui camminare

Nel 1984, lo spettro della fame si aggirava tra le case della popolazione. La città più vicina, dove trovare rifornimenti, era ad almeno 6 ore di auto, ma con il passare del tempo, non per colpa delle piogge, la strada divenne impraticabile. La strategia adottata dalla Renamo era quella di isolare i luoghi abitati. Lungo le strade di collegamento c’erano continui attacchi. Non si poterono più evacuare nemmeno i malati. L’unico aereo di collegamento serviva i mercanti e le loro merci. Trovare posto per un malato richiedeva instancabili negoziazioni, a volte discussioni accese.

Nel 1984 eravamo tornati a casa, in Italia, da due mesi, quando venimmo a sapere che la cittadina era stata invasa dalle truppe antigovernative. Un anno dopo le stesse truppe l’avevano messa a ferro e fuoco, distruggendola e rapendo chi non era riuscito a fuggire. Rapirono anche gli amici frati, cappuccini di Bari, missionari che tante volte ci avevano fatto sentire la differenza tra stare “per” e stare “con” la gente, in mezzo alla quale eravamo tutti andati a vivere.

Tornammo in Mozambico dieci anni dopo, nel 1992. Ci fermammo a Maputo. La nostra famiglia era cresciuta: eravamo in cinque e la guerra stava per finire. Restammo altri 6 anni. Non occorsero tutti per capire che le guerre finite, in realtà vedono finire i conflitti sulla carta, ma non nella realtà: a fine guerra, per molti anni ancora, chiunque può saltare su una mina inesplosa, esseri umani ed animali, che a volte sono l’unica ricchezza di una famiglia. A fine guerra, occorre ricostruire non solo l’ambiente devastato, non solo i servizi essenziali, occorre ricostruire se stessi, ritrovare qualcosa in cui credere, qualcuno con cui camminare.

Il Mozambico ha trovato tutto ciò? Non lo so: Indubbiamente una lunga pace ha permesso la ricostruzione dell’ambiente, una offerta più diffusa di servizi, una maggiore disponibilità di beni. Ma non ovunque, né per la maggioranza. La corruzione interna, alimentata dagli appetiti delle potenze occidentali, che guardano alle enormi ricchezze del Mozambico (gas naturale, oro, rubini, crostacei, terra, legno carbone,…), crea oggi malcontento e instabilità politica notevoli. Le carenze si vivono in ogni ambito sociale, soprattutto al nord del paese, dove prevalgono povertà ed insicurezza e dove l’assenza dello Stato a fianco della popolazione, permette il sorgere di conflitti da parte di gruppi non sempre identificati, violenti ed armati che minacciano la pace, faticosamente raggiunta, ma forse poco adeguatamente difesa e coltivata.

Giovanna Luisa – 4 ottobre 2022

La storia dell’accordo di pace – qui riassunta nell’apposita pagina di  Wikipedia – è raccontata estesamente, con interviste e testimonianze, nel documentario Mozambique Paths of Peace, del 2012, potete contattarci se desiderate una copia del DVD.

Il lavoro della Mbaticoyane: voci da Caia

Il lavoro della Mbaticoyane: voci da Caia

Come purtroppo accade in molti distretti del Mozambico, la popolazione di Caia è colpita dalla presenza di AIDS, malaria, malattie neonatali e infantili, colera e infezioni acute e croniche, spesso legate alle cattive condizioni igieniche e ambientali, alla mancanza di acqua potabile e alla difficoltà  di godere di un’alimentazione sana e varia.

A Caia, il CAM opera nell’ambito della salute comunitaria già dal 2007 e, nel corso del tempo, ha favorito la nascita dell’Associazione Mbaticoyane, in lingua Sena “prendiamoci cura l’uno dell’altro”. L’Associazione comprende al suo interno Assistenti Domiciliari, i cosiddetti Cuidados Domiciliarios, operatori comunitari di salute e volontari locali. Durante l’anno promuove iniziative come corsi di cucina e nutrizione, taglio e cucito, lingua inglese, spettacoli teatrali, percorsi di confronto con i Praticanti di Medicina Tradizionale e un programma radiofonico settimanale sulla salute.

Abbiamo chiesto al sig. Zacarias e alla sig.ra Lucia, due membri dell’Associazione, di raccontarci la loro storia, come sono entrati in contatto con questa realtà e come si svolge una loro tipica giornata.

“Mi chiamo ​​Zacarias Antonio Charles, ho 48 anni, vivo con mia moglie e i miei 9 figli e svolgo il lavoro di Assistente Domiciliare da 13 anni. Ho iniziato nel Distretto di Marromeu, nella località di Mponda, i cui pazienti vengono curati nell’ospedale distrettuale di Caia. Mentre lavoravo ho avuto l’opportunità di studiare. Ho imparato molte cose che mi hanno permesso di migliorare sul lavoro, anche se a causa del poco tempo libero è stato difficile stare al passo.”

Il sig. Zacarias è uno dei Cuidados Domiciliarios, una figura il cui compito è quello dell’assistenza domiciliare ai malati e alle loro famiglie nell’ambito della salute ma anche psichica, della nutrizione e dell’igiene.

“La cosa che mi piace di più del mio lavoro è poter assistere i pazienti della comunità che si trovano in situazioni molto critiche. Spesso i pazienti sono membri della mia famiglia o miei vicini di casa e questo mi da la forza di andare avanti. La cosa più difficile invece è convincere le persone che hanno abbandonato la terapia antiretrovirale a tornare in ospedale e riprendere il trattamento. Tempo fa ho lavorato con un paziente sieropositivo che inizialmente non aveva intenzione di seguire la terapia. Grazie a tanti colloqui e con l’aiuto della famiglia sono riuscito a convincerlo e ora è tornato in salute, prende regolarmente i medicinali, ha ripreso il suo lavoro di pastore di una chiesa e sensibilizza i membri sieropositivi della comunità a seguire il suo esempio.
In un altro caso molto difficile invece una donna aveva interrotto la terapia perché era sola e nessuno della famiglia poteva aiutarla. Soffriva anche di tubercolosi e non era più autosufficiente. Sono riuscito a convincere una sua vicina di casa, la moglie del leader comunitario, che mi aiutava soprattutto a lavarla. È stato un caso molto delicato, ma ora sono felice perché la signora sta bene.”

La sig.ra Lucia è la responsabile del counseling presso la Matchessa Mãe Lamukane.

“Mi chiamo Lucia Abel Afonso, ho 41, vivo da sola con 5 figli. Sono in questo progetto da 10 anni e ho iniziato facendo la volontaria nella comunità del Barrio di Chirimba, prima facevo la contadina. Quando ho saputo che il CAM voleva aumentare il numero di attivisti, ho assunto questo nuovo ruolo presso la Matchessa.”

La Matchessa Mãe Lamukane è una struttura inaugurata nel 2020 in cui l’Associazione Mbaticoyane svolge attività di screening dell’HIV e di consulenza su diverse tematiche sanitarie. Affianco a questo spazio è presente anche un piccolo angolo ristoro in cui si servono piatti caldi tradizionali e bevande.

“Quando arrivo sul posto di lavoro per prima cosa controllo che tutto sia pulito e in ordine, poi preparo la mia scrivania e quando le persone iniziano ad arrivare mi occupo di loro. All’angolo ristoro serviamo ai clienti biscotti, succhi di frutta, polenta e riso con carne di capretto e altro ancora.
La parte che più mi da soddisfazione del mio lavoro è vedere il cambiamento del comportamento nelle persone che dopo essere passate allo sportello e aver sostenuto il colloquio decidono di seguire i consigli che vengono loro dati.

Ad oggi lo stigma verso le persone sieropositive è diminuito rispetto al passato ma purtroppo ancora presente; è molto difficile per i malati accettare il responso quando il test mostra la positività al virus HIV.

“Lo vedo quotidianamente nel mio lavoro alla Matchessa. A volte succede che le persone, dopo aver fatto il test per l’HIV e scoperto di essere sieropositive, lascino un indirizzo di recapito falso e non siano più raggiungibili per essere seguite con la terapia. Tempo fa sono riuscita a fare un colloquio con un uomo. Appena ricevuto l’esito positivo è scappato via dicendo che sarebbe tornato il giorno dopo ma non lo ha fatto. Sono andata a cercarlo all’indirizzo che aveva lasciato perchè ci tenevo che ricevesse tutte le informazioni utili per iniziare il trattamento ma il recapito che aveva lasciato era falso.”

La scuola Solidariedade di Mavalane

La scuola Solidariedade di Mavalane

Giovanna Luisa, membro del Consiglio Direttivo del CAM e Presidente dell’associazione “A Scuola di Solidarietà“, il 26 marzo ha fatto visita alla Escola Solidariedade di Maputo che l’associazione sostiene dal 1993. In questo articolo Giovanna ci parla dell’incontro con i/le giovani della scuola e riporta alcune delle loro testimonianze.

L’Associazione “A scuola di Solidarietà” fa parte del CAM dal suo inizio. Dal 1993, sostiene – prevalentemente con l’offerta di borse di studio – la Escola Solidariedade di Mavalane, una scuola Comunitaria, sorta nella periferia della capitale mozambicana. Oggi (2021) essa conta  3.124 alunni e alunne, affidati/e a 73 docenti.

Inizialmente, le borse di studio hanno promosso la formazione degli insegnanti, poi, gradualmente, sono venute incontro al desiderio di istruzione superiore degli studenti che, pur avendo i requisiti, non avevano i mezzi per frequentare i corsi. I loro nomi completano una lunga lista, che supera di gran lunga il centinaio. Attualmente si tratta di giovani iscritti alla scuola secondaria superiore o alle facoltà universitarie presenti nella capitale. In diverse occasioni, gruppi di viaggiatori provenienti dall’Italia hanno potuto conoscerli, ascoltarli e confrontare esperienze, l’ultima volta pochi giorni fa, il 26 marzo 2022.

“…Il vostro contributo trasforma vite, non solo professionalmente, ma anche come persone” così si è espresso Ailton Tivane, uno dei 18 giovani presenti all’incontro avvenuto in una sala della scuola. Qui ciascuno dei giovani presenti, non senza emozionarsi, ha parlato di sé, portando il proprio vissuto, le proprie aspirazioni, la propria risolutezza ad affrancarsi dalle condizioni di povertà economica e di difficoltà sociale che motiva il contributo offerto.

Al pensiero di Ailton hanno fatto eco altri giovani presenti. Le borse di studio sono state indicate come una “occasione per riempire la società di uomini pensanti e capaci di trasformare l’ambiente familiare”, “un mezzo per ridurre la povertà”, una opportunità per offrire strumenti, diretti sia all’auto imprenditoria sia allo sviluppo del Paese, di cui si riconoscono i problemi e le responsabilità: la diffusa corruzione, la incapacità di cura, la necessità di formazione e la mancanza di lavoro, spesso anche per coloro che hanno un titolo di studio.  La scelta della scuola da frequentare, pur corrispondendo per la maggior parte dei giovani e delle giovani presenti, al desiderio di soddisfare una propria aspirazione, non prescinde da una analisi delle esigenze del mercato a cui molti di loro si adattano.

Augurandosi che altri giovani del quartiere possano godere della stessa opportunità, ci incoraggiano a non rinunciare a promuoverla e noi raccogliamo la sfida, convinti che il Diritto allo studio, come ogni Diritto, non possa che essere di tutti, ovunque.